Il primo uomo

titolo originale Il Primo Uomo
nazione Francia, Italia, Algeria
anno 2011
regia Gianni Amelio
genere drammatico
durata 98 min.
cast J. Gamblin ( Jacques Cormery ), N. Jouglet ( Jacques bambino ), M. Sansa ( Catherine Cormery giovane ), C. Sola ( Catherine adulta ), D. Podalydès ( maestro Bernard ), J. Bonnaire ( zio Etienne )
sceneggiatura G. Amelio
musiche F. Piersanti
fotografia Y. Cape
montaggio C. Simeoni
uscita nelle sale 20 Aprile 2012

Adattamento dall’opera postuma di Albert Camus, è la storia di Jacques Cormery, alter-ego di Camus, che negli anni ‘50 fa ritorno in Algeria, paese dove è nato, ma dove viene considerato come uno straniero dagli algerini, in lotta per l’indipendenza, in quanto francese.

a cura di Noa Persiani (voto 7/10)

Némésis. La misura del ricordo. Di qualcosa che non si è potuto vivere. Déjanire. Come la fiamma unica dell’interiorità uguale che anima l’uomo e lo scrittore. L’uomo totale ne L’uomo in rivolta. Tempio della necessità e della violenza.“ Tutto i morti sono troppi ”.

1957.Il vento tra i giri dei fiori indenni in Algeri. Per aprire gli occhi sulla verità: l’Algeria Francese. Politica. Obbiettivo: rispondere agli assassini con le loro stesse armi. Terra lontana. Dimenticata. Disprezzata. Abitata da due popoli, uno musulmano. Si accetta abilmente lo scorrere del sangue. Presi in mezzo tra la paura di una guerra che tutti preparano e quella tutta particolare delle ideologie assassine. Soffocare in mezzo a coloro che sono convinti di avere assolutamente ragione, tanto nelle macchine quanto nelle visioni. “La patria è la Francia”. Co – esistenza: unica soluzione. Non c’è niente di più importante. Nelle viscere di uno scontro cieco. Una ricerca esistenziale legata al valore della memoria che non si ferma alla sfera privata, ma si allarga alla Storia fino a divenire un percorso che si fonde in maniera indistinta. Il dovere d’uno scrittore è aiutare quelli che subiscono la storia”.

Luci soffuse. Lumi di candela. Inquadrature dal taglio netto. Silenzi. Privazione. Castrazione. Violenza violata d’un bambino espressivo. Sensibilità piena. Sovrapposizione dell’uomo – bambino.  Scuola. Penna stilografica. Nato intellettuale. Maestro di vita. Suo insegnamento vitale. Un bambino è un germoglio dell’uomo che diventerà”. Il personaggio diventa così uno e trino e il percorso di Cormery – Camus – Amelio diventa quello compiuto da uno straniero senza patria, da un uomo che, privato del proprio passato e della propria storia, è necessariamente costretto a guardare dentro se stesso, per potersi ritrovare. Artefice di un destino innato. Mente geniale da puro intellettuale. Bontà d’animo a pro-fusione. Volontà di riscatto per il suo popolo. “Quand’ero piccolo mi dicevi che ero troppo intelligente per restare qui”. Presenza che svanisce nell’essenza. Assenza che permane in presenza. Restare per andare. Partire per tornare.

Inquadrature paesaggistiche marine. Musica colma di corde in sintonia con l’armonia della natura. Ripresa d’interni/esterni ben dettagliata. Una fotografia delicata e ricercata nei colori come nelle prese di luce. Flashback continui, forse troppo variopinti. Salti temporali, forse troppo affusolati. Il passato nel presente. Il presente nel passato. Concatenati, a volte strozzati. Una narrazione forte, commovente. Ottimo cast, fantastica l’interpretazione dei due alter – ego di Camus uomo / bambino. Il giovanissimo attore scandisce la sua interpretazione soprattutto nell’espressività dello sguardo.

Il primo uomo è il primo essere che in qualche modo è libero e padrone di sè. Senza obblighi contrasta quello che la Storia gli offre come dono e spesso come condanna. Il libro incompiuto di Camus è una autobiografia urgente, necessaria e il regista calabrese ci concede un atto d’amore. 

Colui che scrive non sarà mai all’altezza di colui che muore”

Riconoscimenti

  • Toronto International Film Festival 2011: premio FIPRESCI

Sic Fiat Italia


titolo originale Sic Fiat Italia
nazione Italia
anno 2011
regia Daniele Segre
genere documentario
durata 56 min.
sceneggiatura Daniele Segre
distribuzione I Cammelli S.a.s

Il Documentario di Daniele Segre racconta le vicende riguardanti lo stabilimento Fiat di Mirafiori a Torino, durante i giorni del referendum proposto dai vertici della casa automobilistica italiana ai lavoratori. Con un Sì o con un No dovevano decidere rispettivamente se continuare a lavorare cambiando ritmi e standard o se lasciar chiudere la fabbrica.

a cura di Laura Preite (voto 7,5/10)

Daniele Segre torna ad osservare l’Italia con l’occhio di una telecamera e la gelida lente dell’intelligenza. Dopo Morire di Lavoro del 2008, Sic Fiat Italia è un altro documentario che meriterebbe una distribuzione massiccia, ma a detta dello stesso regista, ospite del XIII Festival del Cinema Europeo di Lecce, neanche Rai Tre è interessata a farsene carico. Silurato da tutte le reti televisive, pubbliche e private, perché forse personaggio troppo scomodo per un Paese che non sa più dove comprare tappeti per nascondere polveri, detriti e immondizia.

Come dichiarato dallo stesso Segre, il documentario non è il tentativo poco ambizioso di raccontare i due giorni del referendum del 13 e 14 gennaio 2011. Il risultato sarebbe stato una semplice e banale inchiesta giornalistica ricca di interviste e povera di riflessione. In 54’ invece, si ha la possibilità di catapultarsi   negli ultimi 20 del mondo del lavoro italiano, attraverso altri suoi lavori come ad esempio “Partitura per volti e voci. Viaggio tra i delegati della CGIL”(1991).  Voci, volti, interviste, urla, dignità e coraggio. Un percorso tra le rivendicazioni sindacali, le lotte dei singoli che cercavano di appropriarsi di spazi, di informarsi e pretendere nuovi diritti, l’intellighenzia che non guardava inerme lo spettacolo del tira e molla, ma  assumeva un posizionamento e almeno, costruiva barricate. Le scene in bianco e nero, si sovrappongono e si alternano alle scene a colori, a quel parlare misto, a quella generazione che sentenzia in torinese, ma nella rabbia l’accento scivola a sud, tra Calabria, Sicilia, Puglia e Campania.  Non solo Torino. La Fiat è l’Italia intera, tutta lì, concentrata in quei capannoni che la possono raccontare. Singoli percorsi di vita che potrebbero scrivere storia. Da un punto di vista strettamente tecnico, Segre gioca con i colori della pellicola e con le sequenze. Tutto fa pensare al contrasto, al confronto- tra un ieri non troppo lontano ed un oggi che soffre- alla protesta intaccata ormai dal germe della debolezza o forse della remissività, che è sicuramente peggio.

Il documentario non è affatto un ritaglio obiettivo. Ci sono giudizi, critiche, una polemica educata. Che il referendum proposto dai vertici della Fiat ai lavoratori di Mirafiore sia stato un arrogante ricatto che i media sono riusciti a rivestire di legittimità, è un fatto palese. Ma poi la polemica, cercata ed espressa, si ritira e ci lascia guardare questo lago stagnate che è il nostro Paese, dove tutto è accettato ed accettabile. Dove tutto succede e viene risucchiato nel tempo, dove i soprusi sono presentati come misure cautelari in vista di una crisi economica che ci sovrasta, dove gente in doppiopetto con sguardo caritatevole e secchione, chiede sacrifici a chi ha dolore alle mani, e quest’ultimo ha perso la voglia di reagire. Al massimo sputa di fianco quando veramente è troppo.

Se non guardiamo questi documentari, noi membri dell’esercito del post-acne e del pre-problema-di-prostata o pre-menopausa, che entriamo nel supermercato del lavoro chiedendoci quale prodotto-ricatto conviene di più per evitare almeno il suicidio da depressione e inattività prolungata (mi scuso per i toni solo perché la lista di suicidi che compare ultimamente sui giornali è l’unica notizia di cronaca che leggo, odiando profondamente i quotidiani. La leggo per continuare ad arrabbiarmi), continueremo ad abituarci a questa latente crudeltà. Per smuovere anche negli stagisti non pagati e passionari (questa è per pochi e per chi conosce i miei ultimi giorni in cui ho tentato goffamente di vestire i panni di Giovanna D’Arco e mi sono ritrovata senza un ridicolo attestato e con un tailleur nell’armadio che mi guarda con l’aria di sfida) il pensiero che il lavoro non è un favore, non è una rivisitazione dello schiavismo in chiave post-moderna,  ma è l’unico modo che abbiamo per continuare a sentirci utili ed ogni tanto anche soddisfatti.

The Rum Diary – Cronache di una passione

titolo originale The Rum Diary
paese U.S.A.
anno 2011
regia Bruce Robinson
genere Drammatico, Commedia
durata 120 min.
cast J. Depp (Kemp), A. Eckhart (Sanderson), M. Rispoli (Sala), A. Heard (Chenault), R. Jenkins (Lotterman), G. Ribisi (Moberg), A. Nolasco (Segarra), B. Smitrovich (Mr. Zimburger), E. Cilenti (Digby), B. Chott
sceneggiatura B. Robinson
soundtrack C. Young
fotografia D. Wolski
montaggio C. Littleton
distribuzione 01 Distribution
uscita in sala 24.04.12
link al trailer Trailer italiano


Tratto dal primo romanzo di Hunter S. Thompson, The Rum Diary racconta la storia del giornalista free lance Paul Kemp (Johnny Depp). Stanco della confusione e della follia di New York e delle pesanti convenzioni sociali dell’America negli ultimi anni di Eisenhower, Kemp si trasferisce a Puerto Rico per scrivere su un quotidiano locale, The San Juan Star, diretto da Lotterman (Richard Jenkins). Adeguatosi volentieri all’abitudine dell’isola di bere continuamente rum, Paul è ossessionato da Chenault (Amber Heard), la bellissima americana del Connecticut fidanzata con Sanderson (Aaron Eckhart). Sanderson, un uomo d’affari implicato in loschi investimenti immobiliari, è uno dei sempre più numerosi imprenditori americani decisi a trasformare l’incontaminata Puerto Rico in un paradiso capitalistico a disposizione dei ricchi. Quando Sanderson lo assume per scrivere a favore del suo progetto, Kemp ha di fronte a sé una scelta: usare le sue parole per sostenere il corrotto uomo d’affari o usarle per attaccare il suo progetto.

a cura di Lorenzo Bottini (voto 6+/10)

E’ evidente che non si possa cominciare a scrivere una qualsiasi riflessione su The Rum Diary senza considerare la figura di Johnny Depp come nodo generatore dellʼintero progetto. La sua voglia di portare sullo schermo il primo romanzo scritto dallʼamico Hunter S. Thompson di cui era già stato alter-ego in Fear and Loathing in Las Vegas è palese in ogni inquadratura di un film che lo vede costantemente in scena e ne subisce tutte le conseguenze del caso. Così The Rum Diary vive in bilico tra un sogno lungo un giorno di Raoul Duke ed uno sliding doors di Blow, in un farsi filmico che non può evitare di annodarsi alla maschera del suo onnipresente attore protagonista e alle cedevoli tentazioni dellʼone man show.

Eʼ ormai chiaro quanto Johnny Depp sia nel cinema contemporaneo un trademark inconfondibile, un tipo fisso a cui i suoi copioni si uniformano aderendovisi. La folle idea di re-interpretarsi in un possibile prequel quindici anni dopo il cult-movie di Terry Gilliam appare come lʼennesima conferma di quanto la relazione referenziale tra corpo attoriale e personaggio finzionale in Depp sia irrimediabilmente frantumata; lʼincredulità dello spettatore di fronte al tentativo dellʼattore di interpretare un personaggio che sulla carta dovrebbe avere la metà dei suoi anni apre affascinanti fratture nella struttura narrativa.

Il personaggio di Paul Kemp diventa inevitabile ricettacolo di tutte le sue precedenti caratterizzazioni creando uno strano corto-circuito tra ruolo e personaggio che conferisce alla pellicola una luce sospesa tra sogno e ricordo, illuminando una Portorico da cartolina anni ʼ50 in cui piomba alieno il giovane giornalista. Questʼatmosfera onirica e nostalgica contraddistingue lʼintero film di Bruce Robinson fin dalla sequenza iniziale che, sulle ali di un biplano smaltato, ci trasporta attraverso le nuvole (con sottofondo di un inglesizzato Modugno) fino al paradiso terrestre delle isole caraibiche. Come se la macchina del tempo filmica avesse riportato Johnny Depp alle radici del suo personaggio attraverso un detour purificatorio in un luogo mentale, utopico e irraggiungibile a cui lʼattore vuole a tutti i costi appartenere. Un corpo altro che si muove allʼinterno di uno spazio del ricordo, modellato inseguendo i sogni etilici sbiaditi al mattino seguente.

Ed è così che accanto al più convenzionale buddy-buddy movie emergono folgorazioni quasi post-noir che evidenziano da una parte la fascinazione del luogo immaginato, dallʼaltra la coscienza dellʼimmaginario, dellʼimpalpabilità del sogno. Parzialmente intrappolato in una bi-dimensionalità che si riverbera nei personaggi-funzioni di contorno, dallʼaffarista corrotto che crede di essere un colonialista ottocentesco, alla fanciulla del Connecticut inconsapevole dark lady, allʼamico spalla fidata di nottate alcoliche, The Rum Diary affianca racconto di formazione al romanzo americano della perdita dellʼinnocenza, della necessità di aprire gli occhi sulla realtà consacrando quellʼultima bevuta tra amici prima del neocapitalismo, di Kennedy e di Nixon, del Vietnam e del risveglio. Lucidi come non vorremmo mai essere.

To Rome with Love


titolo originale To Rome with Love
nazione U.S.A. / Italia / Spagna
anno 2012
regia Woody Allen
genere Commedia
durata 110 min.
distribuzione Medusa Film
cast A. Baldwin (John), E. Page (Monica), W. Allen (Jerry), J. Eisenberg (Jack), P. Cruz (Anna), A. Pill (Hayley), G. Gerwig (Sally), R. Benigni (Leopoldo), O. Muti (Pia Fusari), J. Davis (Phyllis), C. Alt (Carol), R. Scamarcio (rapinatore), L. Calvani (giornalista), M. Alvarez, F. Parenti (Michelangelo), I. Ferrari, A. Mastronardi (Milly), V. Marchioni (Aldo), D. Comperatore, A. Albanese (Luca Salta), L. Sastri (amica al cinema), A. Tiberi (Antonio), C. Fortuna (Rocco), M. Rocco, M. Nappo (Sofia), E. Purgatori (Architetto)
sceneggiatura W. Allen
fotografia D. Khondji
montaggio A. Lepselter
uscita nelle sale 20 Aprile 2012


Un noto architetto americano rivive la sua gioventù; un borghese romano qualunque all’improvviso si trova ad essere la massima celebrità di Roma; una giovane coppia provinciale è attratta in incontri romanici separati; un regista di opera americano tenta di far salire sul palcoscenico per cantare un impresario di pompe funebri.

a cura di Alessia Paris (voto 5,5/10)

Vedere un film malriuscito di Woody Allen fa provare un po’ la stessa sensazione dell’andare a pranzo dalla nonna e accorgersi che la pasta che ha preparato è scotta. Inaccettabile, quasi… per non dire impossibile.

Woody Allen ha 77 anni e non so voi, ma io gli voglio un gran bene. Scrivere una recensione negativa su un suo film mi provoca fastidio e dispiacere. Un po’ come leggere un libro che ha scritto un caro amico, accorgersi che è mediocre e aver paura di dirglielo. Di certo non ho la presunzione di credere che gliene importi qualcosa della mia opinione, ma secondo la logica del mio rapporto univoco d’affetto cinematografico nei suoi confronti, scrivere male di un suo lavoro mi procura non pochi disagi e sofferenze.

Tuttavia c’è poco da fare, rimbocchiamoci le mani e parliamo di questo A Roma con amore.

To Rome with Love è una commedia corale senza una vera e propria trama unificatrice, il perno centrale è Roma – come ci dice la dedica del titolo stesso – e il racconto si articola sotto forma di una serie di racconti sconnessi tra loro che dovrebbero complessivamente formare il quadro di un tutto. Ma questa Roma è la Roma vista dai turisti, vuoi che siano americani in vacanza, vuoi che siano americani lì per studio o per lavoro, vuoi che siano italiani del sud che si comportano da provinciali, o vuoi che siano romani che non vivono Roma al pieno delle sue potenzialità (Roberto Benigni è sì un romano, ma è anche un romano “estraneo” a Roma, vittima della monotonia casalingo-lavorativa fin quando non diventa casualmente famoso).

La Roma da cartolina che Woody Allen ci racconta è una Roma fruibile per un pubblico americano, quel pubblico innamorato della fontana di Trevi, del Colosseo e della pizza e mandolino. Una Roma per quei turisti che si perdono nelle strade, che girano e rigirano la cartina tra le mani e non sanno da che parte andare. (Per uno che a Roma ci vive, l’idea di perdersi non fa ridere, ci può far ridere al massimo che qualcuno che viene da New York si perda per Roma.)

Quattro sono gli episodi principali:

Woody Allen e consorte che vengono a Roma per conoscere il futuro marito della figlia che ha deciso di sposare un italiano; Ellen Page (Juno) e Jesse Eisenberg (The Social Network) in un classico episodio vecchio stile – sicuramente il più riuscito tra i quattro – in cui l’amore tra una coppia stabile viene messo in discussione da una donna esuberante e nevrotica; Roberto Benigni e il suo diventare improvvisamente famoso senza motivo; e infine Alessandro Tiberi (Boris) e Alessandra Mastronardi (I Cesaroni) in due rispettivi episodi paralleli riguardo una coppia di giovani sposini di Potenza che viene a Roma per un colloquio di lavoro del marito.

E’ difficile riuscire a disegnare il quadro generale del film, perché l’intera pellicola è talmente satura di attori che spesso ci si perde – soprattutto per un pubblico italiano – nel gioco dell’ “oddio guarda chi è quello”. Ma forse questo è l’aspetto più riuscito e più divertente della pellicola, ovvero il riuscire a ricreare una confusione narrativa che ben rispecchia la caoticità tipica della romanità.

Ma se andiamo ad analizzare i singoli episodi, si fanno prepotenti più i difetti che le qualità della pellicola. Se le quattro idee che reggono rispettivamente i quattro episodi di To Rome With Love contengono una qualche forma di originalità, questa ben presto si perde e si rovina nello sviluppo narrativo. Ho riflettuto sui motivi che possono aver condotto a un tale disfacimento narrativo e sono arrivata alla conclusione che le cause principali sono due: la prima è sicuramente la qualità (scarsissima) attoriale e la seconda è la fretta (palpabile) con cui è stato partorito il film.

Riguardo le prestazioni attoriali, essendo l’episodio interamente americano (Ellen Page e Jesse Eisenberg) l’unico ad essere soddisfacente dal punto di vista recitativo, mi domando se il problema di fondo non consista nel problema della lingua di recitazione e nell’incapacità di Woody Allen di cogliere le sfumature degli attori italiani scelti per interpretare i vari ruoli. Difatti degli attori italiani pochi davvero si salvano. Non sono un’amante di Albanese, ma lui è forse l’unico, insieme a Benigni, che può venire escluso da questo discorso critico. Il personaggio di Alessandro Tiberi per esempio, è creato sul prototipo Woody Allen degli anni d’oro, il suo personaggio rispecchia chiaramente il profilo dei protagonisti dei classici woodyalleniani, senza tuttavia essere minimamente all’altezza. La stessa Alessandra Mastronardi è una ragazza molto graziosa e dal viso dolce che richiama simpatia, ma neanche lei riesce a rivestire i panni del suo ruolo, rendendosi parodia di sè stessa. Tutti gli altri personaggi collaterali sono terribilmente vanziniani e da commedia della vergogna.

Dal punto di vista della fretta palpabile di cui parlavo, faccio riferimento alle idee portanti dei singoli episodi. Ogni episodio ha infatti un’idea di base buona, che con la sapienza comica di Woody Allen sarebbe potuta diventare una fantastica idea. Invece il tutto resta sciapo, “scotto” come la pasta di cui dicevo all’inizio.
Alcune scene vengono prolungate senza motivo, alcune idee vengono gestite talmente male da farle assumere come più prevedibili di quanto non siano in realtà, il tutto condito con un montaggio davvero pietoso che aggiunge confusione là dove avrebbe invece dovuto fornire compattezza e risolutezza.

La nota dolente più grave del film inoltre, e in questo Woody Allen la passa liscia, è sicuramente il doppiaggio, forse il peggiore mai ascoltato negli ultimi anni, come forse solo i film con attori di nazionalità diverse sanno creare. L’inverosimiglianza, la macchinosità, la pura bruttezza del doppiaggio fa perdere almeno un 15% di gradimento al pubblico. Tuttavia mi sento in dovere morale di escludere Leo Gullotta da questa critica, che ha avuto l’arduo compito di doppiare per la prima volta dopo la morte di Oreste Lionello (il doppiatore storico di Mr. Allen) il regista e attore newyorkese. Se nella prima scena in cui compare Allen infatti, avvertiamo una “smagliatura” nella sua voce, col passare delle scene e col proseguire del film ci abituiamo subito e il trauma che personalmente tanto attendevo non è avvenuto, anzi.

Inoltre, spiegatemelo vi prego, come si fa a far dire in un film girato a Roma “devi superare due isolati per arrivare in via Tal de Tali”? Ah, i personaggi si trovavano a Piazza Venezia. Ditemi voi dove li hanno visti i traduttori questi due isolati. E poi, perché tutti gli attori americani parlano (nel doppiaggio, s’intente) in italiano perfetto, mentre un personaggio che interpreta un italiano (il marito della figlia americana di Woody Allen) parla l’italiano con accento americano? Misteri della fede.

In conclusione, è con l’arrivo degli anni zero che la filmografia di Woody Allen ha cominciato a subire quello che ormai è diventato un luogo comune: il singhiozzo qualitativo dei suoi film. Uno sì e uno no, si dice. Un film bello e uno brutto, si dice. Ma chi lo dice? Un po’ tutti… la critica, il pubblico, gli appassionati, i nostri amici, noi stessi.

E se Basta che funzioni era “sì”, Incontrerai l’uomo dei tuoi sogni era “no”, Midnight in Paris era “sì”, c’è poco da fare… che To Rome With Love fosse “no” lo sapevamo da tempo. C’è chi scherzando dice che un film lo gira lui e quello dopo lo fa girare a qualcun’altro. Stando a questa “matematica previsione artistica” speriamo almeno che il prossimo sia di nuovo un convinto “sì”.

Black Block

titolo originale Black Block
nazione Italia
anno 2011
regia Carlo A. Bachschmidt
genere Documentario
durata 76 min.
distribuzione Fandango
cast (intervistati) U. Reichel (Muli), N. Martensen, M. Zapatero, M. Gieser, L. Zuhlke, D. Mc Quillan, C. Nogueras
sceneggiatura C. A. Bachschmidt
musiche F. Cerasi
fotografia S. Barabino, H. Erschbaumer
montaggio A. Pantano
uscita nelle sale n.d.

Attraverso Lena e Niels (Amburgo), Chabi (Zaragoza), Mina (Parigi), Dan (Londra), Michael (Nizza) e Muli (Berlino) il film intende restituire una testimonianza di chi ha vissuto in prima persona le violenze del blitz alla scuola Diaz e le torture alla Caserma di Bolzaneto.

a cura di Serena Ganzarolli (voto 7/10)

Un giovane uomo coi dread spinge un passeggino in una strada periferica di Berlino, un cane nero zampetta affianco a loro. Muli si siede, prende un biberon, e allatta una bambina di pochi mesi. La telecamera osserva da lontano la scena. La luce tranquilla del tardo pomeriggio berlinese illumina la scena, e il ragazzo inizia a raccontare la propria vita, quanto si sentiva diverso dagli altri. Voleva qualcosa di più, per sé. Voleva una vita diversa. E la vuole ancora.

Immagini delle manifestazioni dei giorni che vanno dal 19 al 21 luglio 2001 si susseguono, a supporto delle testimonianze di Muli. Le parole del ragazzo si fermano al 21, il documentario a questo punto si fa corale, e, quasi a supporto dell’indicibile sofferenza del ragazzo, intervengono gli altri, a raccontare quello che accadde dopo – già, perché in questa storia c’è un prima e un dopo. Un punto di non ritorno per tutte quelle persone coinvolte nel pestaggio della scuola Diaz ben raccontata da Vicari nel suo film uscito il 13 aprile. Lena e Niels, Chabi, Mina, Dan e Michael, raccontano ognuno la propria storia, una storia personale e collettiva di un gruppo di vite spezzate, ma che non hanno smesso di credere nei motivi che li hanno portati a protestare contro il G8.

Eccoli, i black block, ci dice Bachschmidt, ai tempi dei fatti uno degli organizzatori, in seno al Genoa Social Forum, del percorso del corteo. Guarteli, i black block che cercavano nella scuola. Sì, perché è con quella scusa la polizia ha fatto irruzione nella scuola e con quella scusa ha potuto picchiare e torturare, riducendo molti manifestanti in fin di vita.

Sono passati undici anni, dalla notte della Diaz e dai giorni di Bolzaneto, ma loro hanno ancora voglia di raccontare, ma soprattutto credono ancora nelle cause che li hanno portati a cercare di bloccare il G8.

Ci crede ancora Niels, che dopo essere stato picchiato, pieno di ferite, è stato spruzzato con un estintore. Ci crede ancora Lena, le cui costole rotte dalle tonfa adoperate dalla parte del manico dalla polizia le hanno bucato i polmoni. Ci crede ancora Michael, che riesce a farti scappare un sorriso mentre ascolti la sua incredibile storia. Ci crede ancora Dan, che riesce nel raccontare in maniera intelligentemente sensibile come non fu lasciato solo dal suo compagno Norman e come non lasciò soli gli altri, nemmeno a Bolzaneto: “Ne usciremo fuori insieme”. Ci crede ancora Mina, che ha aiutato Bachschmidt, facendo da interprete nel documentario in cui parlano tre lingue diverse, e raccontando la sua storia. Ci crede ancora Chabi, nonostante la rabbia, i silenzi, la difficoltà di parlare e di raccontare. E ci crede ancora Muli, che ha deciso di superare il suo trauma creando un’associazione che vuole offrire supporto psicologico per i manifestanti vittime delle violenze della polizia.
Una fotografia pulita, limpida come la verità, accompagna le testimonianze dei sopravvissuti alle torture. Nelle immagini non c’è nient’altro, se non il loro corpo e le loro parole che riempiono gli ambienti spogli.

Gli intervistati guardano Genova, il porto, il profilo della città. Non è più solo la Diaz, non è più solo Bolzaneto.

Un uomo coi dread cammina lungo il muro di Berlino, nella sera. E’ sereno. Non dimenticherà mai. Ma è vivo, è sopravvissuto.

Sono sopravvissuti tutti. Ce l’hanno fatta, e grazie all’ultimo film di Daniele Vicari Diaz – Don’t clean up this blood, improvvisamente, in Italia, e si spera anche altrove, questa storia sta tornando a far parlare. Il documentario è stato proiettato domenica 15 aprile su Rai 3 in prima visione assoluta, e, nonostante l’orario di proiezione (quasi mezzanotte) proibitivo, è il segno che qualcosa si muove, che questa storia non vuole essere dimenticata. Che il cinema, insomma, si sta confermando come mezzo migliore per svolgere una delle funzioni principali per cui anche in passato è stato utilizzato: far emergere altre versioni, altri punti di vista, altre verità. Costruire democrazia e testimonianza, insomma.

i.

Diaz – Don’t clean up this blood

titolo originale DIAZ – Don’t clean up this blood
anno 2012
regia Daniele Vicari
genere Drammatico
durata 127 min.
distribuzione Fandango
cast Claudio Santamaria (Max Flamini), Jennifer Ulrich (Alma Koch), Elio Germano (Luca Gualtieri), Davide Iacopini (Marco), Ralph Amoussou (Etienne), Emilie De Preissac (Cecile), Fabrizio Rongione (Nick Janssen), Renato Scarpa (Anselmo Vitali), Mattia Sbragia (Armando Carrera), Antonio Gerardi (Achille Faleri), Paolo Calabresi (Francesco Scaron), Alessandro Roja (Marco Cerone). Rolando Ravello (Rodolfo Serpieri), Monica Bîrlădeanu (Constantine Giornal), Aylin Prandi (Maria), Sarah Marecek (Inga), Pietro Ragusa (Aaron), Jacopo Maria Bicocchi (Silvio Pieri), Mircea Caraman (Vittorio Donati), Ioana Picos (Gilda), Micaela Bara (Karin), James Longshore (Charles), Razvan Hincu (Amico John).
sceneggiatura Daniele Vicari, Laura Paolucci
fotografia Gherardo Gossi
montaggio Benni Atria

Genova 21 luglio 2001, ore 24.40, i poliziotti fanno irruzione nella scuola Diaz. All’interno sono presenti 93 persone che verrano tutte arrestate e condotte al carcere di Bolzanero per essere torturate.

a cura di Serena Ganzarolli (voto 7/10)

Una bottiglietta di vetro viene lanciata da un manifestante al passaggio di una macchina della polizia di fronte alla scuola Diaz, dove, quella stessa notte, avranno luogo i pestaggi da parte della polizia. La bottiglietta rimane sospesa in aria per un po’, sentiamo una voce fuoricampo dire “This is the first movement in the history that it isn’t asking anything for its own”, la bottiglietta cade a terra, ma non colpisce nulla, si frantuma in mille pezzi, e le storie dei protagonisti, estremamente diversi tra di loro, improvvisamente, si animano: Luca, giornalista de La Gazzetta di Bologna, decide di partire per Genova per documentare ciò che sta succendendo dopo la morte di Carlo Giuliani avvenuta il giorno prima a piazza Alimonda; Nick, un manager che vuole seguire il seminario dell’economista Susan George, sta cercando una stanza d’albergo dove dormire; Anselmo, anziano militante della CGIL – SPI, decide di passare la notte a Genova perché “devo andare a trovare una persona”; Etienne e Cecile sono due anarchici francesi dallo sguardo duro e puro di chi non abbandona il campo prima che la battaglia sia finita, come dirà poi la stessa Cecile; Marco si occupa della logistica del Genoa Social Forum, insieme a Franci, una delle tante avvocatesse che tutela gli arrestati; Alma invece cerca i dispersi del giorno prima insieme alla sua amica.
Abbiamo quindi una componente di manifestanti estremamente eterogenea: l’unica cosa che li accomunerà sarà di essere l’oggetto delle inaudite violenze che avranno luogo nella scuola Diaz di Genova, adibita a dormitorio per l’occasione.
Dall’altra parte, invece, abbiamo l’omologazione per eccellenza: la polizia, il braccio armato dello Stato, che la notte del 21 luglio 2001 decide di compiere quella mattanza che costituirà un punto di non ritorno. Vediamo una polizia sbruffona, a tratti insicura (la presenza di Max Flamini ce lo conferma continuamente), arrogante, misogina, ma decisa nel fare violenze.

C’è però qualcosa che non torna nel film di Daniele Vicari: si mostra tantissima violenza, talmente tanta che chi guarda ne esce nauseato. Non poteva essere diversamente, probabilmente, ma insieme agli schizzi di sangue, la notte del 21, a Bolzaneto, i manifestanti, com’è riportato negli atti processuali, gli stessi su cui si basa il film, vennero sottoposti a torture psicologiche che non possono finire in secondo piano o relegate ad alcune scene, certo significative, ma troppo corte rispetto alla lunga scena di sgombero della Diaz da parte della polizia. Lo squilibrio, per chi conosce gli atti, è evidente: per la cronaca, ai manifestanti fu imposto di cantare “Faccetta nera”, fare il saluto romano, le donne furono minacciate di stupro in continuazione.
Il sangue serve, per Diaz, così come servì vedere i corpi scheletrici di Auschwitz, ma la trama si perde nell’esplosione della violenza, incontenibile, e Vicari non riesce a star dietro all’enorme numero dei personaggi presenti nel film. Concentrarsi solo su due, al massimo tre storie, e sulla violenza fisica e psicologica adoperata da parte della polizia, avrebbe fatto di Diaz un ottimo film. Invece rimane sempre, in chi guarda, la sensazione che non tutto è stato detto, sebbene quel cartello appeso da Cecile “Don’t clean up this blood” dica molto più di quanto ogni parola da parte dei torturati possa dire.

In ogni caso, Diaz è un film che va visto: sia perché riporta a galla un fatto storico sconosciuto o dimenticato dai più, sia perché, non riportando i veri nomi dei poliziotti coinvolti nel caso specifico (cosa che, al contrario di quanto scrive per esempio Vittorio Agnoletto, è un punto di forza), rende universale la vicenda: sebbene non decostruendo in maniera adeguata le logiche interne al corpo di polizia italiano, si evince che quello che capitò alla Diaz non fu un caso isolato, ma un piano premeditatamente studiato in seno ad un movimento, quello no-global, ai tempi estemamente forte. Il pensiero va ovviamente al movimento NO TAV, allo stato attuale determinatissimo per la causa, e alla presenza massiccia della polizia nella Val Susa per difendere la costruzione del treno ad alta velocità.

Un film che, sebbene qualche pecca, riesce a dire cose anche su altro che sé stesso.

E a proposito di questo, nei giorni precendenti all’uscita del film è successo quanto segue: “In una circolare del Ministero degli Interni targata 15 marzo scorso, si ricorda a tutti i poliziotti di non parlare dei film in uscita. Una circolare che fa riferimento al film di Daniele Vicari Diaz.” [Fonte: Cabiria Magazine].

Segnaliamo inoltre che domenica 15 aprile, alle 23.45, in prima visione assoluta, andrà in onda su Rai 3 “Black Bloc”, di Carlo A. Bachschmidt.

Il mio sospetto è che James Cameron ce l’abbia piccolo e vabbé lo so che è un luogo comune

Rubrica
Il demolitore

IL MIO SOSPETTO E’ CHE JAMES CAMERON CE L’ABBIA PICCOLO E VABBE’ LO SO CHE E’ UN LUOGO COMUNE
a cura di Pietro Romeo

Ogni volta che ti vedi un film al cinema e poi finisce e si accendono le luci ed esci dalla sala e te ne vai in giro per strada, accade di solito una cosa strana: per il primo quarto d’ora, minuto più minuto meno, ti muovi e agisci come se fossi Kevin Costner che deve fare con urgenza una telefonata essenziale – una telefonata da uomo chiave – da una cabina telefonica (nella maggior parte dei casi ad un agente in incognito della CIA). Insomma, è così che ti senti per un po’: ti senti un personaggio fondamentale per lo sviluppo narrativo della tua città, la città in cui hai la residenza. Mentre passeggi pensi che gli altri ti osservino e si chiedano chissà cosa stai per fare adesso, cosa t’inventi per modificare le faccende della metropoli.

Io a questo fenomeno di transfert psico-cinematografico gli ho dato pure un nome una volta, un nome vagamente azzeccato e per giunta un po’ divertente, di quelli che ti rendono intelligente e pure simpatico agli occhi degli altri, solo che adesso purtroppo non me lo ricordo.

Comunque: se è vero che ogni volta che ti vedi un film al cinema e poi finisce e si accendono le luci ed esci dalla sala e te ne vai in giro per strada, accade tutto questo, c’è da dire che, nel millenovecentonovantasette quando mi ritrovai fuori dal cinema Odeon dopo aver visto Titanic con una mia ex intellettualmente dislessica, questa cosa a me singolarmente non mi accadde.

Mi accadde tutt’altro, mi accadde che non facevo altro che pensare al talento dei capezzoli di Kate Winslet. Dei capezzoli grandi e morbidi, irregolari, imperfetti, umani, meravigliosamente volgari: dei capezzoli che mi fecero capire finalmente la direzione da prendere nella mia vita in fatto di capezzoli di donna.

Dei capezzoli davvero talentuosi quelli della Winslet, talentuosi a tal punto che, quando poi tutte le altre parti del corpo della Winslet si rivelarono pure loro altamente talentuose, ci rimasi un po’ male. Avrei preferito insomma che la Winslet non fosse stata una donna tutta intera di talento, ma che fosse rimasta solo una donna con un’unica parte del corpo di talento: dei capezzoli di talento.

In pratica cominciai a pormi dubbi sul fatto che forse il talento dei capezzoli della Winslet discendeva direttamente dal talento della Winslet tout court e tutto ciò, purtroppo, toglieva loro, evidentemente, talento.

Ma poi pensai che in ogni caso i capezzoli della Winslet rimanevano dei capezzoli di talento. E così mi rasserenai definitivamente sul talento dei capezzoli della Winslet. E comunque ora basta col talento dei capezzoli della Winslet.

Ah, Titanic comunque, tutto sommato, è un film.

Un film che è costato un sacco di soldi e che pare che ricompaia nelle sale ogni quindici anni regolamentari. E infatti adesso, il calcolo della vita media, gli scienziati sondaggisti che non hanno aperitivi da fare stasera, lo fanno con i Titanic che escono al cinema.

Per esempio, dicono, la vita media in Italia è di cinque Titanic.

Ora però devo dire cosa ne penso di questa riedizione in 3D che è nelle sale proprio in questo periodo e allora vi dico che secondo me questa riedizione in 3D che è nelle sale proprio in questo periodo è il risultato più sublime dei disturbi megalomani di James Cameron.

Non mi pare si possa prendere in considerazione un’ipotesi critica alternativa, perché quando sei il regista del rumoroso kolossal che ha lanciato definitivamente Leonardo Di Caprio, e quando sei lo stesso regista del rumoroso kolossal che ha lanciato definitivamente degli antipatici mai-così-sofisticati effetti tridimensionali (Avatar, lo ricorderete), che tu sia megalomane mi pare il minimo di deduzione possibile; e dunque se poi ti metti pure ad autofecondarti facendo scopare incestuosamente il tuo primo kolossal rumoroso con il tuo secondo kolossal rumoroso, allora vuol dire che stai scrivendo una nuova storia nell’ambito dei casi psichiatrici. Significa che stai superando la tua stessa cartella clinica per raggiungere una nuova vetta di paranoia della gloria. Una paranoia della gloria che manco Scarface: probabilmente perché ce l’hai piccolo, come da luogo comune.

E comunque, nonostante la sospetta ipodote, d’altra parte, che fortuna James Cameron: uno dei pochi uomini al mondo in grado di tirare su quantità incommensurabili di grana da un disagio psichico. Cacchio, piacerebbe anche a me, anch’io vorrei fare un sacco di soldi sfruttando il mio disturbo somatoforme indifferenziato.

Stavo pensando: ma voi ce lo vedete James Cameron a girare un film low budget? No, perché secondo me assistere ad una cosa del genere è tanto improbabile quanto vedere Fabrizio Corona in  Corso Buenos Aires al volante di una Skoda Felicia. Avete presente la Skoda Felicia? Se non ce l’avete presente andate su google immagini e date un’occhiata. Non esiste automobile più rassegnata in circolazione.

Ma comunque niente, queste due cose non si avvereranno mai: né il low budget di Cameron, né il Fabrizio Corona al volante di una Skoda Felicia.

Perché questo è un cacchio di mondo. Eh sì, lo dico sempre ma non lo scrivo mai che questo è un cacchio di mondo senza senso dell’umorismo.

Io comunque forse ci vado a vedermelo al cinema Titanic in 3D, e non è che ci vado solo per vedere i capezzoli della Winslet con un nuovo senso della profondità; è che il cinema sarà di sicuro affollato di gente e a me piace stare in mezzo a dei deficienti recidivi: mi fa sentire un intelligente recidivo.

Tarnation

titolo originale Tarnation
nazione Stati Uniti
anno 2003
regia Jonathan Caouette
genere documentario fai-da-te
durata 88 min.
distribuzione n.d.
cast Jonathan Caouette, Renee LeBlanc, Rosemary Davis, Adolph Davis, David Sanin Paz
sceneggiatura Jonathan Caouette
musiche original music by: John Califra, Max Avery Lichtenstein
fotografia Jonathan Caouette
montaggio Jonathan Caouette, Brian A. Kates (co-editor)
uscita nelle sale n.d.

Tarnation è un documentario autobiografico incentrato sull’infanzia e sulla prima età adulta di Caouette, così come su sua madre Renee LeBlanc, che fu sottoposta da giovane ad elettroshock. Con un padre assente e una madre che lottava contro la malattia mentale, Caouette si ritrovò a vivere nell’area di Houston con i nonni, Adolph e Rosemary Davis, i quali, nonostante avessero una personalità segnata da diverse stranezze, riuscirono a fornire a Jonathan una struttura famigliare di grande supporto. Il film esplora la vita di Caouette mentre egli gestisce il proprio rapporto con la madre passando da figlio ad amico e, infine, perfino figura paterna, continuando a sviluppare la propria creatività come attore, scrittore e regista.

a cura di Sergej Brevjic (voto 7,5/10)

Jonathan Caouette è un ragazzo dal volto stropicciato e preoccupato, una mattina si sveglia si mette al computer cerca gli effetti collaterali di un’overdose di litio per poi chiamare in ospedale e chiedere informazioni sulla madre. Vive a New York con il suo compagno, ma viene dall’Illinois; la sua è stata (e per molti aspetti lo è ancora) una vita travagliata e intensa, al punto che ha creduto di poterne fare un film, o meglio un documentario.

Tarnation è quanto di più originale ma allo stesso tempo semplice si possa immaginare di vedere, e il coraggio sta proprio nel costruire questo film partendo quasi esclusivamente dal riversamento dei suoi super8 e dal ricomponimento degli stessi in un insieme intimo (i suoi monologhi “allo specchio”, i suoi teatrini, tutte le riprese in cui si confessa alla cinepresa casalinga) ritmico e fedele alla stessa realtà, non sono presenti ricostruzioni, solo “materiale di repertorio”, oltre ovviamente al raccordo al presente.

Una sorte crudele quella avversa ad una famiglia flagellata da continui macigni che si abbattono uno dopo l’altro e a cui assistiamo basiti: violenze domestiche, psicofarmaci, droghe scambiate per caramelle, alcool e disturbi mentali, una catena difficile da spezzare che gradualmente viene interrotta dal talento istrionico e naif di un ragazzo cresciuto bruciando inconsapevolmente le tappe, che parte per New York coltivando le sue doti attoriali e deciso a ricostruire – come una Torre di Babele fatta di frammenti ricomposti in un mosaico amatoriale che ha dell’incredibile organicità  (vincendo un altrimenti facile caos) – la sua esistenza e quella della sua disgraziata (tarnation) famiglia. Quello che traspare è un quadro sgranato e ricucito di una vita di provincia che incarna quel gotico americano kitch e inquietante  che si nasconde in quel conformismo e in quell’ignoranza che porta a disastrose conseguenze (i genitori della giovane  madre di Jonathan autorizzano l’elettroshock consigliato dai “medici”), sublimata in poesia da un’autodistruzione che si  fa volontà e viceversa. L’assenza di una vera e propria voce fuori campo, è supplita da lapidario testo che cronologicamente ci illustra gli accadimenti e le conseguenze spesso devastanti che coinvolgono Jonathan Caouette, l’autore di questo film montato in casa con un programma per Macintosh, e la sua famiglia composta da madre e dai relativi nonni, creando un vortice nero che ci immerge in un tunnel dal quale non si conosce via d’uscita e nel quale veniamo tirati dentro e attratti per seguire gli sviluppi dello sfacelo che si abbatte impietoso.

Angosciante sentito sincero malinconico, accompagnato da una splendida colonna sonora comprendente tra i migliori autori folk sperimentali e alternativi della scena musicale indipendente americana (per i cui diritti il budget è lievitato a un costo stimato di 218$) questo film, pardon documentario, si candida a rimanere un’opera delicata e straziante unica nel suo genere, di grande valore intrinseco e compositivo. Non è un film per tutti.

Tema portante del film:

Revolutionary road


__FOCUS ideato e curato da
Serena Ganzarolli

titolo originale Revolutionary Road
nazione U.S.A. / Gran Bretagna
anno 2008
regia Sam Mendes
genere Drammatico
durata 119 min.
distribuzione Universal Pictures
cast L. Di Caprio (Frank Wheeler) • K. Winslet (April Wheeler) • K. Bates (Mrs. Helen Givings) • Z. Kazan (Maureen Grube) • K. Hahn (Milly Campbell) • M. Shannon (John Givings) • R. Simpkins (Jennifer Wheeler) • T. Simpkins (Michael Wheeler)
sceneggiatura J. Hayte
musiche T. Newman
fotografia R. Deakins
montaggio T. Anwar
uscita nelle sale 30 Gennaio 2009

 

 


Basato sul noto romanzo di Richard Yates, è la storia di una giovane coppia che cerca di realizzarsi all’interno di una società estremamente conformista.

a cura di Serena Ganzarolli (voto 8-/10)

Revolutionary Road è un’analisi estremamente lucida di una delle questioni più ardue che si presentano nella vita di ognuno di noi, nel passaggio dalla giovinezza all’età adulta: è possibile essere coerenti ai propri sogni, una volta che la vita ti si presenta davanti in tutti i suoi problemi pratici? E’ possibile non tradire quel giovane o quella giovane che aveva sognato di vivere la vita al di là delle convenzioni, senza cadere nel conformismo?
Questo ci chiede Sam Mendes e il banco di prova che usa, basandosi sul romando di Richard Yates, è una coppia sposata negli Stati Uniti degli anni ’50. Non una coppia infelice, ma anzi, una coppia che si ama, che ha capito che solo insieme avrebbe potuto realizzare i propri sogni, vivere veramente come voleva: e forse per questo April e Frank si sentono un po’ superiori agli altri, al loro stare in mezzo ad una società estremamente conformista.

Entrambi, anche se in due modi differenti, si accorgono che stanno diventando quello che non vogliono essere: lui, un qualsiasi impiegato che aspira a fare carriera in un’azienda, che tradisce la moglie con la segretaria per non prendersi le proprie responsabilità di marito e padre. Lei, da attrice che era, finisce per diventare un’infelice casalinga, con la casa e i figli come unica preoccupazione. Ad un certo punto, l’inevitabile arriva: April propone a Frank di andare a vivere a Parigi.
Parigi come realizzazione materiale di un sogno, di un’utopia. Lo spettatore la vede, la può toccare concretamente nei dialoghi, nelle parole, nei gesti e negli occhi della coppia, tesa verso questo sogno. Ed è qui che il film spicca il volo, nel riuscire a staccarsi dal periodo storico in cui è ambientata, per porre la questione universale e attuale: cosa siamo disposti a fare per far coincidere l’immagine che ci eravamo fatti di noi quand’eravamo piccoli e avevamo tempo di sognare, con quella del presente, adesso che il tempo è stato risucchiato dalla terrificante realtà? Saremo in grado di non tradire Parigi, di non accontentarci di vivere in un posto che porta solo il nome di quello che volevamo, ma che non lo è veramente?

Toccherà a John Givings, detenuto a lungo in un manicomio e ora tornato a casa dai genitori che tengono all’apparenza prima di tutto (“Non sta bene!” grida Mrs. Givings ogni volta che qualcuno prova a dire quello che pensa), toccherà proprio a lui l’ingrato compito di dire le cose come stanno. Prima da alleato poi da nemico della coppia, John soffre, soffre perché sa dov’è la verità, ma nel ricoprire il ruolo di “matto”, non viene considerato come pari.

Revolutionary Road è un film che non lascia spazio ad interpretazioni. La verità è solo una, ci dice Mendes, non ci possono essere vie di mezzo. E la verità è nella soluzione inevitabile del conflitto, un conflitto che non coinvolge solo la società e l’individuo, ma anche due individui che pensano di doversi battere contro la società stessa.

Un film di cui c’era bisogno, insomma, in cui non c’è né un attore di più, né uno di meno, dove tutto è magistralmente tenuto in equilibrio da Mendes anche grazie ad una sceneggiatura veramente ben fatta e ad una fotografia estremamente eloquente.

Unica nota di demerito, per il quale ho dovuto abbassare leggermente il voto, le ultime scene che allentano troppo una tensione che invece doveva essere mantenuta proprio come finale.

ATTENZIONE. SMETTERE DI LEGGERE QUI SE NON SI E’ VISTO IL FILM.

In April, nel corso della pellicola, avviene una scissione della personalità che non si trova mai in Frank: una scissione legata al fatto che lei è una donna.
Il corpo di lei si scinde dalla volontà dell’inconscio, i desideri non coincidono più con un corpo che fa figli, se essi sono di intralcio alla libertà.
E allora la verità non può che coincidere con un ricongiungimento tra corpo e mente, tra desiderio di essere quello che si è e realtà pratica. Significativo è il fatto che questo si materializza con il più pratico e invasivo degli atti per una donna. L’aborto è qui visto come unica soluzione in cui non importa se vivere o morire, importa ricongiungere due parti forzatamente divise. Importa che l’unico modo per affermare la Verità, per una donna, è solo attraverso il proprio corpo, importa che non ci sono sconti per lei. April diventa quindi il simbolo della verità e della libertà da una società conformista, in cui alla sfera maschile delle teorie e dei sogni che non si realizzano mai, si oppone il femminile che afferma che la verità, appunto, è solo da una parte.



Marigold Hotel

titolo originale The Best Exotic Marigold Hotel
nazione Gran Bretagna
anno 2012
regia John Madden
genere Commedia
durata 118 min.
distribuzione 20th Century Fox
cast M. Smith (Muriel) • B. Nighy (Douglas) • J. Dench (Evelyn) • T. Wilkinson (Graham) • D. Patel (Sonny) • P. Wilton (Jean) • C. Imrie (Madge) • R. Marquez (nipote) • R. Pickup (Norman) • L. Tarbuck (capoinfermiera Karen) • T. Desae (Sunaina)
sceneggiatura O. Parker
musiche T. Newman
fotografia B. Davis
montaggio C. Gill
uscita prevista 30 Marzo 2012


Otto pensionati britannici, schiacciati dall’ordinaria e stancante vita quotidiana, decidono di trasferirsi in India, attirati dalla pubblicità di un lussuoso hotel.
Ad attenderli non sarò lo sfarzoso albergo che si aspettavano ma una decadente struttura tenuta in bilico da uno zelante giovane direttore.
Superata la delusione iniziale, gli otto protagonisti si adatteranno alla nuova terra riscoprendo esperienze e passioni sopite che inevitabilmente cambieranno il corso del destino per tutti loro.


a cura di Rossella Carluccio (voto 7/10)

L’infuso aromatico e speziato di un bel the delle cinque. Sorseggiato con calma sul finire della giornata.  Marygold Hotel è proprio così, un bel piacere da concedersi con calma: l’umorismo british si fonde con le note più speziate e calde dell’anima indiana e proprio come una buona tazza di the, questo film scende piacevolmente sui nostri occhi.

Sarà per le ambientazioni, un’India viva, straripante ed accogliente, sarà per un cast di attori strepitosi, Judi Dench e l’imperturbabile Maggie Smith in prima fila, sarà per una sceneggiatura così lineare ma sfoggiata con profonda delicatezza. Sarà per questo che Marygold Hotel è un film da apprezzare.

Riesce a parlare di amore, sesso, morte, solitudine e drammi, dando voce a quella generazione che ancora non si considera all’ora del tramonto.  E’ appunto la rivisitazione dell’età senile la chiave di volta di tutto il film: l’anziano che non vuole più essere relegato ad una mera sussistenza ma richiede un ruolo attivo nella propria vita, deciso a riadattarsi e ricostruire la propria esistenza,  coltivando i semi per  una seconda primavera che è ancora in tempo di arrivare. E quale posto migliore se non l’India, culla degli splendori del passato con la sua esotica atmosfera e dispensatrice di saggezza poteva essere la location più azzeccata per porsi domande sulla propria esistenza?

Ma in quest’epopea corale che fa del suo punto forte l’interpretazione posata e tipicamente inglese dei protagonisti, risulta, a tratti fuori luogo la parentesi dedicata al vissuto del giovane Sonny (Patel, già protagonista di The Millionaire). Una macchietta che stona dentro questo schema impostato ma comunque ben avviato, generando un visibile contrasto.

E’ un film che fa della fluidità il suo punto forte. Anche se le ultime battute sono claudicanti: i tre quarti del film viaggiano ad una certa andatura, tra l’altro apprezzatissima dallo spettatore, ma per poter arrivare al finale designato, l’ultima mezz’ora viene accelerata in maniera brusca perdendo però per strada qualche nota di qualità.

E’ un film dalla buone intenzioni (anche se forse Madden in qualche scena ha un po’ esagerato con le zollette di zucchero nel the) dove tutto è costruito per far emozionare e sognare lo spettatore: e nonostante alcuni elementi di disturbo, l’intento è raggiunto, due ore di pellicola per regalare un piacevole storia su cui favoleggiare.